UN'ESPERIENZA
- N.S.
- 26 mar 2016
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ll’inizio dell’autunno scorso mi è stato proposto di insegnare la lingua italiana ad un gruppo di rifugiati ospiti del nostro paese. Inizialmente ero un po’ perplessa; avevo avuto in passato un’esperienza simile, con un gruppi di straniere, ragazze in difficoltà ospiti di una Casa-Rifugio Milanese, ma insegnare ad un gruppo numeroso di soli uomini per me rappresentava una cosa del tutto nuova…Comunque, ho accettato, spinta sia dalla curiosità sia dalla voglia di tornare all’insegnamento. Confesso che nutrivo qualche perplessità, forse ero un po’ prevenuta e c’era anche un tantino di timore: saranno educati? Si comporteranno bene? In quale ambiente mi troverò ad operare? Prima di iniziare le lezioni sono andata a incontrarli nella casa in cui vivono, e la prima impressione, quando mi si sono raggruppati intorno, è stata che fossero un’infinità, ragazzoni ben piantati o ragazzini esili, imbarazzati e intimiditi quanto me, così simili ai miei figli in vari momenti della loro crescita, in parte scorbutici e impenetrabilmente estranei, in parte trasparenti come tutti i giovani uomini della loro età. Alla prima lezione, nell’Aula Consiliare messa a disposizione dal Comune, ho avuto quasi un momento di panico; non si trattava dei bambini delle elementari, con i quali avevo vissuto felicemente 40 anni di esperienza, e neanche di giovani madri nubili con le quali, se non altro, avevo in comune i problemi di tutte le donne e di tutte le madri: questo era un territorio inesplorato. E il primo passo in questo territorio è stato A chiedere che cosa si aspettassero da me. La risposta era scontata: che insegnassi a parlare italiano. Ma perché? Molti parlano bene il francese, altri l’inglese (sicuramente meglio di me), uno solo ha ammesso di conoscere solo un po’ di portoghese; sarebbero in grado comunque di cavarsela. Ma loro vogliono parlare la nostra lingua, o perché desiderano continuare gli studi interrotti – molti hanno frequentato le scuole superiori, finché hanno potuto- oppure per continuare a svolgere il mestiere che esercitavano al loro paese: barbiere, meccanico, autista, insegnante, commerciante. E così le lezione sono iniziate,4 ore settimanali aumentate a 6 grazie alla presenza di un’altra insegnante volontaria, Rosa Brugnetti. Adesso posso dire di conoscerli, e posso dire che loro conoscono me, e si fidano. Adesso so quanta volontà e quanto entusiasmo investono nello studio di una lingua che per molti di loro risulta particolarmente ostica e complessa, quanta curiosità ci sia in loro, quanta volontà. E anche quanta cortesia, quanta buona creanza, quanta solidarietà. Uno di loro mi ha chiesto in prestito un vocabolario, che legge avidamente per poi bombardarmi di domande che spaziano dalle sfumature semantiche all’etimologia al “ perché si dice così”; un altro mi fa notare che la storia che ho raccontato lui la conosceva già da bambino (davvero tutto il mondo è paese ); un altro ancora mi ha chiesto se anche in Italia tutte le nonne parlano tanto…secondo loro non hanno mai imparato abbastanza, e non si rendono conto che in 5 mesi sono già in grado di correggermi se sbaglio l’ortografia di una parola. Hanno un’insana passione per i verbi…hanno scoperto da qualche giorno il passato remoto e ne sono affascinati. Oltre che, giustamente, inorriditi…mi vengono i brividi quando penso che prima o poi arriveremo al condizionale e al congiuntivo! Io insegno italiano ad un gruppo di Senegalesi, Ghanesi, Pakistani…e forse sto dimenticando qualche etnia. E imparo. Imparo il valore di vederli sempre più in grado di esprimersi, di sentirsi dire “Grazie” alla fine di ogni lezione e di ogni spiegazione, di vedere l’aspettativa nei loro occhi quando chiedono “Ci vediamo domani?” Ho imparato qualcosa sulla vita quando uno di loro, dopo aver capito il significato della parola “invidia”, sentita chissà dove, ha osservato: “Ma qui in Italia invidia non c’è, io credo…perché voi avete tutto”. Noi abbiamo tutto: un tetto sulla testa, il cibo in tavola, le persone care a due passi, la sicurezza del domani. Qualcuno potrebbe osservare che qualcosa hanno anche loro: cibo, riparo, sostentamento…ma nessuno potrebbe affermare che è la stessa cosa. Ho imparato ancora una cosa: se mio figlio fosse costretto dagli eventi ad essere straniero in terra straniera (come peraltro sono stati tanti miei compaesani in America, in Canada, in Australia…), vorrei che qualcuno fosse capace di accoglierlo senza pregiudizi, senza remore.
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